Nulla all’apparenza potrebbe sembrare più diverso, distante, addirittura opposto del modo che hanno di rappresentare il proprio sentire artistico Andrea Brun e Sergio Poggi. Sensibile fotografo il primo, esuberante pittore il secondo, si confrontano e coraggiosamente si completano in questa personale che giustamente definiscono “Paesaggi e Personaggi” dove i paesaggi sono uno: il Louvre visto dal Louvre in molteplici visioni, mentre i personaggi sono tanti e cioè i poliedrici e variegati protagonisti del rutilante mondo di Poggi. Già qui è evidente la prima contrapposizione: dove Brun rappresenta una realtà che sembra ferma, sospesa nell’attimo colto dall’obiettivo, Poggi racconta e denuncia svariate situazioni che apparentemente possono sembrare giocose, perché espresse con colori forti e con tratti infantili, sue caratteristiche peculiari, ma in realtà egli, con una comunicazione immediata e sintetica di grande efficacia, rivela un mondo assurdo che sempre più ci appare insensato. I suoi quadri hanno per questo un grande impatto emotivo, sono un percorso doloroso all’interno di una quotidianità fatta di guerre dissennate e ingiustizie quotidiane, di umanità dolente o naif. Brun ci calma con il suo lirismo, con le sue immagini cromaticamente leggere, che si contrappongono alla violenza della pittura. Ma come in “Uno, nessuno, centomila”, egli sa perfettamente che della stessa realtà ci sono tante visioni quanti gli occhi che la guardano e per questo anche lui ci inganna facendoci pensare ad una ripetitività che è solo fittizia in quanto le sue foto riprendono un soggetto che, sì è sempre lo stesso, il museo del Louvre, ma diversa è l’angolatura e l’occhio o la finestra attraverso la quale viene visto. Infatti egli si pone all’interno del museo stesso e guarda attraverso le finestre chiuse facendole diventare protagoniste attive di tutti gli scatti inserendo l’immagine all’interno delle sue cornici, dietro tendaggi che velano e parzialmente nascondono una realtà che poi è la stessa che c’è al di qua di esse sfinendoci in un gioco di contrapposizioni dove diventa chiaro che ciò che si definisce arte non è solo quello che è chiuso dentro un museo, ma tutto ciò che, anche al di fuori di esso, lo può diventare, anche l’edificio stesso, se soggetto o sfondo di un sentire artistico. E in questo gioco di rimandi lo spettatore si trova a essere volutamente disorientato tra una realtà sfacciata nei colori e nei modi e una mistificata da una purezza iconografica che svela e non rivela il riconoscimento di ciò che è arte e ciò che non lo è.