La galleria d’arte, ovvero l’idea di concentrare e quindi, inevitabilmente, ridurre il perimetro dell’arte figurativa, furoreggia a Parigi e da lì nel resto dell’Occidente nel XIX secolo. Come il giardino zoologico, la galleria d’arte indica l’atteggiamento e il tratto più caratteristico della società borghese dell’Ottocento: trasformare il mondo in una sterminata bottega dove ammirare, gustare e, se possibile, acquistare creature e artefatti, pezzi di mondo comunque trasformati in cose.
Gli animali sono ancora in gabbia in quasi ogni città del mondo. Ma l’arte, la vera arte, che è, nella sua essenza più viva della vita stessa, è fuggita da tempo.
Barbara Cella, che dell’arte contemporanea si è fatta vestale, di questa fuga vuole essere complice, e suscita esibizioni in studi professionali, uffici, banche. Et voilà! Vai dal commercialista, dall’avvocato, e ti imbatti nella pittura, il quadro è appostato e tende tranelli salutari alla tua attenzione. Non è il cittadino che va in cerca dell’arte, ma avviene esattamente il contrario: l’arte, la buona arte, l’unica di cui Barbara si prenda cura con zelo amorevole si offre alla vista dei cittadini mentre agiscono la loro vita quotidiana, e attendono agli obblighi da essa imposti.
L’arte così interagisce con gli ingranaggi della normalità, nei luoghi della normalità e li trasfigura, per chi sa vedere, a un tempo li ammanta e li denuda, offre loro bellezza e ne sottolinea la funzione.
Wandering art, arte che vaga, appare come per incanto e lascia un segno indelebile, una scia colorata, dietro sé.